Da Caltagirone un appello al cuore del Paese, in occasione del Centenario dell’appello a tutti gli uomini Liberi e Forti

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più di cento anni fa, il 18 gennaio 1919, don Luigi Sturzo lanciava l’appello a tutti gli uomini Liberi e Forti con cui fondava il Partito popolare. Un grande storico del passato, Federico Chabod, ha definito questo momento come “l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo”. Senza dubbio, quell’appello ai Liberi e ai Forti fu un manifesto politico di grande importanza. Ma non fu solo questo. Fu anche il traguardo di un lungo processo di maturazione, personale e collettivo, che investì Sturzo in prima persona, ma anche tutti quei cattolici che da decenni erano impegnati nella vita pubblica del Paese.

Quell’appello si colloca, infatti, alla fine di un lungo cammino che era iniziato molti anni prima. Se volessimo indicare una data d’inizio di questo processo potremo indicare, senza dubbio, il 15 maggio 1891: il giorno della pubblicazione dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII. Un’enciclica che lo stesso Sturzo definì come “la prima finestra” sul mondo operaio.

Il seme piantato dall’enciclica leonina, dunque, ha prodotto il suo frutto a molti anni di distanza dalla sua piantagione e con modalità, tempi e protagonisti assolutamente non preventivati. Basti pensare al protagonista di questa complessa vicenda, Luigi Sturzo, che quando venne pubblicata la Rerum novarum, non era ancora stato ordinato sacerdote e che poi ha percorso i sentieri accidentati della storia senza avere un progetto preordinato, ma con la fede semplice dell’uomo di Dio. La sua esperienza di vita rappresenta un’autentica testimonianza cristiana straordinariamente attuale.

In più occasioni il Papa ha ripetuto, infatti, che come credenti non dobbiamo affannarci per “occupare spazi di potere”, ma al contrario siamo chiamati ad “avviare processi” perché “Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia”. Le strade dell’uomo non sempre collimano con quelle di Dio. Sta a noi, però, scrutare “i segni dei tempi”. Da questo punto di vista, l’esempio sturziano è formidabile. E quello che facciamo oggi qui a Caltagirone risponde proprio a questa visione: è iniziato un processo di cui non conosciamo l’esito e di cui non esiste un progetto preconfezionato.

Esiste però la consapevolezza – che io vedo espressa simbolicamente nel discorso di Francesco a Firenze nel 2015 – di trovarci di fronte ad un “cambio d’epoca” eccezionale che necessita un ripensamento del nostro stare al mondo: sia per ciò che riguarda l’opera di evangelizzazione e sia per quello che concerne l’impegno sociale. Negli ultimi anni, in più occasioni, ho parlato della necessità di un “nuovo patto sociale” tra tutti gli uomini e le donne di buona volontà e ho anche auspicato la costruzione di una rete di persone che abbiano a cuore il destino dell’Italia.

Oggi, venendo qui a Caltagirone, ho la netta sensazione che questo auspicio stia prendendo forma in modo concreto e totalmente autonomo. Si è iniziato a tessere quella rete di relazioni umane e di esperienze sociali di cui il nostro Paese ha un grande bisogno. E di questo risultato, ringrazio pubblicamente gli organizzatori e il comitato scientifico che hanno promosso questo convegno in occasione del Centenario dell’appello ai Liberi e ai Forti.

 

La ricorrenza di questo Centenario ci obbliga, però, a farci una domanda importante: cosa rimane oggi di quell’appello? A mio avviso rimangono tre grandi eredità su cui vale la pena riflettere.

 

In primo luogo, rimane la fede, la cultura e l’umanità di don Sturzo. Vittorio Bachelet ha scritto di lui dicendo che “don Luigi Sturzo fu prima di tutto un sacerdote. Un santo sacerdote”. Un prete siciliano, figlio del nostro tragico e stupendo Mezzogiorno. Indiscutibilmente un uomo di Dio. Ciò che colpiva del sacerdote di Caltagirone, scrisse Jacques Maritain, “era la pace dell’anima, la fiducia soprannaturale e una straordinaria serenità la cui sorgente era nascosta in Dio”.

La fede viene prima di tutto: prima dell’impegno sociale, prima della cultura e prima della politica. Sturzo è uno dei grandi cattolici italiani del ‘900 che hanno testimoniato con la propria vita che la roccia della propria esistenza è Cristo. E questa fede in Cristo si traduceva poi nella fedeltà alla Chiesa anche quando insorgevano difficoltà o visioni difformi.

Questa sua esperienza di vita, oggi, non può non essere di grande insegnamento per tutti noi. L’essere cristiani significa, infatti, far parte, prima di tutto, di un corpo vivo in cui il dialogo è un elemento fondamentale del nostro essere in relazione. Si possono e si debbono avere idee diverse ma sempre nel rispetto reciproco, senza scadere in uno “spirito di divisione” caratterizzato da “invidie e gelosie” o addirittura da polemiche tristi e volgari.

Diceva Sturzo che “la libertà è come l’aria”. Se “l’aria è viziata, si soffre; se l’aria è insufficiente, si soffoca; se l’aria manca si muore”. Ho la sensazione che qualche volta, soprattutto sul web, l’aria sia viziata da polemiche eccessive e da un uso irresponsabile della propria libertà. Scriveva Giovanni Paolo II che la libertà deve sempre essere accompagnata dalla verità e dall’amore altrimenti è un “nome vuoto” e “pericoloso”. Si è veramente liberi, dunque, soltanto quanto si è pienamente responsabili delle proprie azioni e quando, con umiltà, non ci si sente mai migliori degli altri.

Ecco allora l’insegnamento che viene dalla testimonianza di fede di Sturzo: mettiamo la nostra libertà di figli di Dio al servizio del bene comune, con gratuità, speranza e carità. E non prestiamoci al gioco del principe di questo mondo che semina ovunque la zizzania perché ci vuole divisi e in rovina.

 

Questa riflessione mi permette di introdurre la seconda eredità dell’appello ai Liberi e ai Forti: ovvero la vocazione all’impegno sociale. Giovanni Paolo II, parlando all’Università di Palermo nel 1982, disse che don Luigi Sturzo “seppe infondere nei cattolici italiani il senso del diritto-dovere della partecipazione alla cosa pubblica al servizio della verità e dei più deboli, mediante l’applicazione dei principi della dottrina sociale della Chiesa”.

La dottrina sociale della Chiesa cattolica è un deposito di conoscenze e pratiche di inestimabile valore su cui tante volte anche io ho richiamato l’attenzione di tutti i fedeli. È infatti assolutamente necessario conoscerla, approfondirla e studiarla in ogni suo aspetto per capire fino in fondo la sua grande ricchezza e la sua utilità. D’altra parte, come ci insegna don Sturzo non bisogna “agire da ignoranti, né da presuntuosi. Quando non si sa – scrive il prete di Caltagirone – occorre informarsi, studiare, discutere serenamente e obiettivamente, e senza mai credere di essere infallibili”.

Per questo motivo – non mi stancherò mai di ripeterlo – è fondamentale superare quella dannosa e sterile divisione del passato tra i cosiddetti “cattolici del sociale” e i “cattolici della morale” che ancora continua a resistere nelle nostre comunità. Non ci si può dividere tra coloro che si occupano solo di bioetica e coloro che si occupano soltanto di povertà, perché non esistono tematiche di serie A e di serie B. Esiste invece un messaggio unitario del Vangelo e della dottrina sociale. Dobbiamo quindi tornare a questa unità evangelica e capire che la difesa della vita e della famiglia sono collegate inscindibilmente con la cura dei poveri, degli ultimi e degli scarti della società.

D’altronde, cento anni fa, quando Sturzo scrisse quell’appello aveva di fronte un’umanità travolta dalla Prima guerra mondiale: milioni di morti sul campo di battaglia e un mondo capovolto nei suoi valori e nelle sue gerarchie. Oggi, abbiamo un’umanità ferita nella parte più profonda della sua anima perché la guerra si è combattuta non solo nei campi di battaglia, ma nei cuori e sui corpi degli uomini e delle donne.

Viviamo infatti in una società in cui tutto il corpo umano è stato mercificato – persino l’utero della donna – e si è arrivati a mettere in discussione la concezione di uomo e donna, di maschile e femminile, di famiglia e di vita. A questa guerra biopolitica si è poi aggiunta una durissima crisi economica che ha distrutto certezze sociali che sembravano granitiche e ha generato paure collettive e riesumato antichi odi ideologici che minano la pacifica convivenza degli uomini.

Per questi motivi, oggi, abbiamo di fronte a noi una “nuova questione sociale” che caratterizza la società in cui viviamo. Una “nuova questione sociale” che comprende al suo interno sia la “questione antropologica” che il grande “problema della povertà”. Mai come oggi, pertanto, è attualissima l’esortazione a costruire la cultura per un “nuovo umanesimo”. Ovvero una cultura che rispetti l’incalpestabile dignità umana in ogni momento e in ogni luogo dell’esistenza. Affinché possiamo dire che l’altro che ci sta di fronte è Cristo.

 

Infine, come ultima eredità di quell’appello ai Liberi e ai Forti, rimane un amore sincero e profondo per l’Italia. Non vi nascondo che il 30 maggio 2018, in un momento di difficoltà del Paese, firmai in prima pagine per “Avvenire” un appello dal titolo Prima il bene comune che era direttamente ispirato all’appello sturziano. Mi ispirai a Sturzo perché il sacerdote di Caltagirone può essere annoverato, senza dubbio, tra i grandi italiani del ‘900. Un italiano del Sud, un figlio fedele della Chiesa e un esponente autentico di quest’Italia bella e fragile. Un’Italia divisa storicamente dalle passioni e dalle montagne. Ma anche un’Italia unita dalla bellezza e dalla cultura, da un popolo creativo e dalla millenaria presenza della Chiesa che ancora oggi, in mille modi diversi, è presente su tutto il territorio, da Aosta a Caltagirone.

 

 

 

La multiforme presenza dei cattolici nella società italiana – di cui anche qui, in questo convegno, abbiamo un esempio – è il frutto di una storia ricchissima e di un deposito vastissimo di esperienze e cultura. I cattolici, infatti, per secoli sono stato il cuore pulsante della penisola. E più recentemente possono essere annoverati tra i “soci fondatori” della Repubblica italiana. E lo possono rivendicare con orgoglio, coraggio e senza paura. Per questi motivi, la presenza dei cattolici nella società italiana è un valore prezioso per l’Italia. Un valore che non può essere dimenticato o cancellato.

E proprio in virtù di questo bagaglio immenso di valori e responsabilità, anche oggi vorrei rivolgere un appello paterno a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, invitandoli a prendersi cura del nostro amatissimo Paese per ricucirne il tessuto sociale che oggi appare sfibrato. Un’opera di rammendo da svolgere con spirito di servizio e carità, senza piegarsi a visioni ideologiche, utilitaristiche o di parte. Senza seguire lo spirito del mondo e i pifferai magici dalle promesse facili. E partendo proprio da questo Mezzogiorno maltrattato e dimenticato, ricco di talenti ma povero di lavoro e di opportunità.

“C’è del buono in questo mondo” faceva dire Tolkien ad uno dei suoi personaggi. Perciò vale la pena impegnarsi per la difesa e lo sviluppo della nostra cara e diletta Italia. Un impegno che deve trasformarsi in una missione per il bene del Paese e nel nome delle più alte tradizioni storiche del nostro Paese. Tra queste si colloca, senza dubbio, il popolarismo sturziano.

 

Cari amici e amiche mi avvio alla conclusione. L’appello di Sturzo continua a parlare all’uomo di oggi, interroga profondamente la nostra società così marcatamente individualista e soprattutto esorta ad una riflessione profonda tutti i cattolici. Perché quell’appello, come ho detto altre volte, è il prodotto di una stagione alta e nobile del cattolicesimo politico italiano che ha dato un contribuito fondamentale a costruire l’Italia contemporanea e a formare una civiltà basata sull’umanesimo cristiano. Una civiltà basata sulla centralità della persona umana e che rinuncia, in nome del Vangelo, ad ogni volontà di oppressione del povero, ad ogni mercificazione del corpo umano e ad ogni rigurgito xenofobo.

Oggi come ieri essere “liberi e forti” significa andare controcorrente, rimanendo fedeli al Vangelo in ogni campo dell’agire umano, anche in quello politico, e farsi annunciatori gioiosi dell’amore di Cristo con mitezza, sobrietà e carità. Come ho già avuto modo di dire – e lo ripeto ancora oggi – essere “liberi e forti” significa farsi difensori coraggiosi della dignità umana in ogni momento dell’esistenza: dalla maternità al lavoro, dalla scuola alla cura dei migranti. Perché, in definitiva, la vita non si uccide, non si compra, non si sfrutta e non si odia.

Em. Card. Gualtiero Bassetti

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